L’impianto di capelli artificiali (metodo Yamada)
Ricordiamo per completezza e soprattutto a titolo storico anche questa tecnica parachirurgica, a nostro parere obsoleta ma che ha avuto i suoi estimatori e che viene, qua o là, ancora praticata e periodicamente riproposta.
L’impianto di capelli artificiali nel cuoio capelluto è una procedura di mascheramento della calvizie. Tale metodica si diffuse rapidamente dall’America e dal Giappone verso l’Europa approdando in Italia all’inizio degli anni 80.
I “capelli artificiali”, nella loro concezione originale (secondo Yamada), sono di poliestere e colorati con pigmenti inorganici che danno loro un aspetto naturale. Dapprima arrivavano direttamente dal Giappone, in contenitori sterili, poi sono stati prodotti un po’ ovunque. La loro lunghezza originale era di 16 cm. Ad una estremità presentano una specie di cappio. Mediante un apposito strumento questi capelli vengono afferrati da un ago sottile e “sparati”, anche senza necessità di anestesia, nel cuoio capelluto ad una profondità di 8 - 15 mm, sempre sopra la “galea capitis” (fascia connettivale semi rigida che si estende sopra e a protezione del cranio). Il “cappio”, in basso al capello, funziona da sistema di ancoraggio quando intorno ad esso si forma tessuto cicatriziale. Durante ogni seduta possono essere impiantati, senza anestesia, alcune centinaia di questi capelli, di solito fino a 500. Il tessuto cicatriziale che si forma intorno al cappio fissa l’estremità del capello che rimane ancorato al sottocutaneo con una certa stabilità. Tra capello impiantato e cute avviene inoltre un processo di epitelizzazione, o di marsupializzazione, che finisce per formare una specie di pseudofollicolo, sola barriera che dovrebbe impedire a germi di invadere il derma. Il capello artificiale, nonostante l’ancoraggio, va comunque incontro, come ogni corpo estraneo, ad un processo di superficializzazione che finisce con la sua espulsione; una perdita di capelli artificiali considerata media e normale oscilla fra il 10 e il 30% all’anno. Occorrono quindi periodici interventi di rinfoltimento che compensino le perdite.
Della tecnica originale di Yamada sono state proposte numerose varianti ma tutte senza reali vantaggi: differiscono fra di loro per il tipo di materiale con cui il capello è realizzato, per il metodo di colorazione più o meno superficiale della fibra, per il tipo di cappio che dovrebbe fermarlo alla galea, per la forma dell’ago infissore ma sopratutto per la provenienza del kit chirurgico. Una delle tecniche più originali prevede l’impianto di capelli a “V”, da inserire con uno strumento ad ago retrattile, dotato di 2 punte, che aggancia il capello in corrispondenza del vertice della V e lo rilascia ad una profondità di 8 mm. Dato che così ad ogni impianto corrispondono 2 capelli e che il metodo di inserimento è velocissimo, si arriva fino a 800 capelli all’ora. Il risultato estetico immediato, specie nei casi di aree alopeciche limitate con assenza di tessuto cicatriziale e se la quantità di capelli inseriti non è troppo grande (2000 - 5000 capelli), è assolutamente buono ed anche la tolleranza del materiale artificiale da parte della cute è, all’inizio, apparentemente buona. I risultati sono poi nel tempo, di solito, molto inferiori alle aspettative.
Per un buon esito di questa tecnica occorre comunque che venga rispettato un preciso protocollo le cui regole fondamentali sono:
l’implantologo deve essere qualificato, possibilmente specialista in dermatologia con esperienza di dermochirurgia;
la fibra del capello artificiale deve essere un polimero medical-grade, registrato nella farmacopea come filo da sutura;
i pigmenti utilizzati nella fibra devono essere di origine naturale ed inglobati nel polimero ancora allo stato liquido perché non ne possa avenirne migrazione nel derma;
il sistema di ancoraggio deve essere a nodo reversibile per consentire, se necessario, l’estrazione della fibra con danni cicatriziali minimi;
le fasi di attuazione dell’intervento di impianto debbono essere collegate fra loro in maniera organica e programata per ottenere il meglio che il metodo può offrire;
dopo il momento operatorio il paziente non dovrà essere abbandonato ma verrà seguito adeguatamente nel tempo e da personale medico adeguatamente preparato;
l’informazione del paziente sul pre e sul post operatorio deve essere corretta. L’informazione deve essere anche chiara e precisa su quanto il metodo di impianto può dare e su quali sono i sui difetti connaturati ed i suoi limiti e costi.
L’inconveniente subito evidente di questo metodo consiste nel fatto che viene espulso fino al 30% dei capelli impiantati ogni anno e poiché è previsto un periodico intervento di rinfoltimento che compensi le perdite, i costi si fanno assai elevati e il soggetto diventa “dipendente” dal “centro tricologico”. Successivamente ogni capello che viene espulso lascia una piccola zona di alopecia cicatriziale che piano piano finisce per trasformare l’alopecia androgenetica in una alopecia cicatriziale.
Sono poi anche drammaticamente frequenti fenomeni di reazioni da corpo estraneo con formazione di tipici granulomi infiammatori.
Troppo frequente è anche l’infezione della cute causata da basse cariche di batteri, spesso anche antibiotico resistenti.
Se tutto questo non bastasse ripetiamo che il prezzo degli interventi è molto alto (i preventivi vengono fatti un tanto a capello) e questo prezzo non è giustificato né dal costo del materiale usato né dai risultati ottenuti né spesso, purtroppo, dalla professionalità di chi effettua questi impianti.
Questa tecnica, che fu dichiarata illegale negli USA dalla FDA nel 1983, è ancora sporadicamente praticata da “tricologi”, spesso non meglio qualificati e spesso non medici, per i quali si configura anche il reato di esercizio abusivo della professione.
Una variante, che riteniamo abbandonata, di questa tecnica è l’impianto di capelli naturali (“Tims”-Tecnica implantologica metodo Santi).
Si tratta in questo caso di capelli veri nei quali il bulbo originale viene sostituito con uno pseudobulbo artificiale, polimerico, a “treccia aperta”, che consentirà l’ancoraggio alla cute; dopo la sterilizzazione, con metodo simile a quello dei capelli artificiali, i capelli vengono inseriti nel cuoio capelluto con la “pistola implantologica”, in direzione obliqua, 30 - 35°, ad una profondità di 5 - 8 mm). Ad un test preliminare di valutazione, effettuato con 100 - 150 capelli, segue, in genere dopo 2 mesi, l’impianto vero e proprio (300 - 350 capelli per seduta, sempre ad un costo calcolato “a capello” e assai alto). Il risultato estetico della metodica è migliore di quanto ottenibile con i capelli artificiali e la percentuale di perdita annua sarebbe inferiore. Qualunque sia il risultato estetico dell’impianto di capelli occorre poi sempre considerare non solo il problema della loro “perdita” annua ma anche quello della loro conservazione. Il deterioramento dei capelli naturali sarà infatti tanto più veloce quanto più vengono trattati: shampoo, pettinature, asciugature, acqua clorata, cappelli, caschi, per non parlare di colorazioni e decolorazioni ne compromettono rapidamente la qualità e l’aspetto. In definitiva il risultato estetico iniziale (magari buono) verrà perduto più o meno rapidamente. Inoltre anche il capello naturale è comunque e ovviamente, un corpo estraneo, ancora meno biocompatibile di una fibra artificiale, pertanto anche questa metodica è soggetta a tutti gli stessi inconvenienti e a tutti i rischi del metodo Yamada.
Solo con parere dell’ 8 febbraio 1995, il Ministero della Sanità italiano, ha deliberato che l’innesto di capelli inorganici o naturali va considerato atto medico e va eseguito da laureati in medicina e chirurgia ablitati all’esercizio della professione e che i centri ove l’attività viene eseguita devono essere considerati ambulatori ai sensi dell’art. 193 Testo Unico LL SS e successive modifiche.
Tut